Blackletter.

Analisi divertita della relazione tra parola e immagini nella storia dell’arte recentissima.

Luca Trevisani



 

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su “Blackletter”, dicendomi (penso per convincermi) che so scrivere molto bene.
La cosa mi fa molto piacere; non lo nascondo, anche perché a me piace scrivere.
Al tempo stesso, la cosa un po’ mi imbarazza… cosa ne so io di una lettera nera?
La prima considerazione che mi viene in mente è che c’è una specie di cortocircuito tra una artista che lavora con le immagini e la parola scritta: una cosa esiste solo se se ne parla: un albero che cade nel mezzo di un bosco non cade, rimane in attesa che qualcuno lo veda al suolo. Tra il suo essere albero e il suo essere scoperto e definito come tronco al suolo c’è una sorta di sospensione.........................................................................................
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e che cos’è, mi chiedo allora, un lavoro che non è in grado di tradursi in parola?

Le parole sono una spiegazione, una sovrastruttura, che mi immagino come i fili di una marionetta, che conducono un lavoro verso la sua comprensione, o, forse, sono una struttura con cui riempire una forma, le patate con cui riempire un sacco di patate.
Ma se un sacco di patate svuotato delle stesse è un ex sacco di patate, un sacco che deve ospitare la sua prima patata, cos'è? un sacco di patate potenziale? oppure solo del tessuto?
E un lavoro che nasce senza illustrare una storia, senza parole, ma seguendo solamente un’ atmosfera .. se la caverà da solo?
Ogni studio visit è una nuotata in un mare di parole, una navigazione tra definizioni, sentenze e idee: ogni lavoro che vi incontra è l’illustrazione di un procedimento verbale, le parole vengono gonfiate in 3d o schiacciate, assottiliate in due dimensioni, o archiviate, o scritte, direttamente...
Pensavamo di osservare arte visiva, e scopriamo che siamo attorniati da parole.
Non c’è niente di male. Sia chiaro. A me piace molto scrivere, vi ripeto, e leggere, lo ammetto, quello ancora di più.

Tanti anni fa ci è stato detto che il lavoro concettuale nasce quando l’arte viene dopo a filosofia, (*) ora mi sembra di poter dire che la letteratura ha soppiantato la filosofia. Il vero artista non aiuta la società rivelando verità mistiche, ma raccontando storie.
Le forme che mi sono trovato ad osservare nelle mostre più belle (**) che ho visto nei mesi scorsi non sono altro che un cumulo di schegge, parti di una narrazione fatta senza parole ma spiegata da parole, che sono nascoste dietro l’ombra degli oggetti che si presentano ai miei occhi.
Sembra quasi che l’ abilita' narrativa sia l’unica arma che salvi le belle mostre da diventare collezioni di memorabilia, o display di souvenir, rendendole, invece, formidabili macchine di senso.
C'è stato un momento in cui le mostre erano composte da citazioni non rielaborate, da prelievi fatti alla vita reale, o alla storia, al modernismo… a quello che volete, pensate ad un argomento o a una suggestione, beh, sarà sicuramente stata fatta oggetto di questo trattamento autoptico. Ora sembra che si sia passati dalla classificazione alla confusione creativa, all’evocazione… tornando alla Logica del senso. (***)
E’ il classico rapporto tra forma e contenuto, che ora esplode, si ritrova avvolto in un circuito virtuoso, e ci trascina con se. In mezzo alle parole.

Poi, non ricordo più dove, ho letto Ryan Gander scrivere del suo rapporto con la fiction, e di come molte delle cose che sostengono le forme che propone non siano realmente vere. Il verosimile è più vero del vero… basta saperlo raccontare… A parole. Appunto.
C’è stato il tempo in cui per misurare il valore di un quadro, economico, e a volta anche culturale, se ne valutavano le dimensioni, e, di conseguenza, ai pittori veniva affibbiato un coefficiente corrispettivo (mi sembra si chiamasse così). Ora forse bisognerebbe coniare uno strumento in grado di misurare quanto un lavoro crea narrazioni, in che modo agisce sul nostro immaginario quotidiano, quanto concorre a modificarlo, o a crearne uno tutto suo…

C’è un bellissimo libro di short stories di Douglas Coupland, intitolato Polaroids from the Dead, che fa al caso nostro, ed è, per l’appunto, un diario per immagini.
Le parole e le immagini: in questo caso sono fotografie, polaroids, appunto.
I testi che il libro raccoglie sono diversi per natura e dimensioni. In alcuni casi sono dei lunghi reportage giornalistici, altre volte articoli brevi di poche pagine.
Il terzo è dedicato a Brentwood, uno dei più lussuosi quartieri residenziali di Los Angeles, talmente bello da far paura, forse non a caso già luogo di residenza e di presunto omicidio di O. J. Simpson, e scenario della morte di Marylin Monroe.
È proprio parlando di Brentwood, del suo magnetismo sintetico, vuoto, nero, che Coupland ci regala queste parole:

“Qualcuno sostiene che noi, in quanto animali, ci differenziamo da tutti gli altri animali per un particolare, e cioè che abbiamo bisogno di rendere la nostra vita racconto, narrazione, ed è quando sentiamo svanire il nostro racconto di vita che ci sentiamo sperduti e diventiamo pericolosi, perdiamo controllo e ci ritroviamo soggetti alle forze del caso.”

Tutto quello detto e scritto fino qui è riassunto in poche righe, perfettamente. Ora si che capiamo cosa rende le mostre davvero riuscite, lontane anni luce dall’essere una collezione di memorabilia: gli oggetti che comprendono, le forme di cui sono fatte, niente è soggetto alle forze del caso. C’è una ragnatela invisibile che tiene unite le cose, noi non la vediamo, ma ne sentimo la presenza.
Le mostre riuscite non corrono il pericolo di perdere il senso della propria esistenza come racconto: non temono la 'denarrazione.' (***)
Ci hanno detto (****) che la condizione Postmoderna è sancità dalla fine delle grandi narrazioni, ora ne abbiamo innumerevoli, piccole, maneggevoli, personalizzate, e non conta nemmeno se siano vere o false, basta che siano avvincenti.
Ma se non importa la veridicità delle storie, non conta nemmeno che siano o no reali. E con reali intendo presenti. Tangibili.
Prima della reale fortuna dell'e-book, del libro elettronico, abbiamo visto la nascita dell'i- book. dell’invisible book.
L'invisible book non ha parole, e nemmeno le pagine di carta, è quella porzione di spazio immaginaria che contiene le storie che collegano le opere d’arte, che le spiegano, che le illustrano. Si, avete letto bene: parole che illustrano immagini.
Una specie di ossimoro.
Ma funziona, a quanto pare. Basta pensare alle performance di Tino Sehgal, che vivono sullo stesso i-book su cui vivevano i libri di omero, quello della narrazione orale, prima di venire scritti, e diventare libri veri e propri.
L’arte si è smaterializzata grazie a un libro (*****) e si ri-materializza di volta in volta negli oggetti di scena di una storia mai scritta… in un libro invisibile, appunto.

L’immagine è zero, la sete è tutto, diceva uno spot della Sprite, un po’ di tempo fa.
La sete…. ma anche la fiducia nelle parole è tutto, una fiducia così grande che quasi si tramuta in fede.
Sarà un caso, ma in italiano per dire che uno crede a una bugia si dice che “se l’è bevuta”…
E il cerchio, come dire, si chiude…

Ma torniano a parlare di blackletter…
Pensando ai libri miniati vi viene in mente un preciso rapporto tra parola e immagine. Diverso da quello di cui ho scritto sin qui. La parola racconta e l’immagine illustra, espande e dilata nelle due dimensioni quello viene raccontato sulla carta.
Penso poi, in un secondo momento, alla forza visiva di una pagina così arzigogolata, dove le lettere nere, su sfondo bianco, si intrecciano tra di loro, creano un paesaggio, più che riportare delle idee. La pagina è ricca di stimoli visivi, finisce per comunicare più per una sua forza autonoma, che per il senso delle parole che contiene.
Le parole rimangono sottopelle, profonde così tanto che non affiorano nemmeno più.
Rimane una amalgama indistinto e misterioso.
Rimane il mistero di una lingua sconosciuta, di cui si è smarrito il codice.
Torniamo in un periodo tra il 19 Luglio 1799 e un giorno imprecisato del 1822, tra quando la stele di Rosetta venne scoperta, e quando Jean-François Champollion la riusci a utilizzare per comprendere i geroglifici. Torniamo ad appezzare l'alfabeto per la sua forza iconica, un po come faceva Ramelzee inventando alfabeti a new york, negli anni ottanta.
Tralasciamo il significato, facciamoci trasportare delle forme, dalla loro grazia.
Riscopriamo la bellezza, grazie alle parole.
È un po’ come il mistero di una porta elegante e silenziosa di cui si è persa la chiave, ma dalla cui serratura filtra una luce senza pari. In fin dei conti, non sono le persone con più carisma quelle in cui è il silenzio, più delle parole, che si fa saper ascoltare?
Spesso i sentieri perduti, le strade che terminano nel nulla, esercitano un fascino su chi le scopre, un magnetismo che le idee e i piani realizzati non possono avere.
È come un rivoluzionario demodè agli occhi di un adolescente: è la mancanza di compromissione con l'esistente che dona una capacità di seduzione senza pari.

Rileggendo quello scritto sino ad ora, vedo le parole fondersi in un disegno che va seguito nella sua evoluzione lungo la pagina, più che nel suo senso.
Proprio come per una bella blackletter.
Ho finito non per scrivere di blackletter, ma di scrivere COME blackletter…
Scrivendo con l’inchiostro normale ho ottenuto questo groviglio di spunti. Ho provato a scrivere con l’inchiostro simpatico frasi semplici a senso compiuto, per sbrogliare la questione; ora non vi resta che passare con una fiamma sotto la carta… ma quello che risulterà non sarà piu una parola: sarà un lavoro… vi sto dando le istruzioni per una performance …
Siamo fregati.
Non ci posso fare niente, è il fascino della parola ha la meglio sul senso compiuto, è il piacere della parola che strega il costruttore di forme, e chi, con lui, sperava di determinare il confine tra la parola e l’immagine, tra la forma e le idee che la generano.
Ma questo, a parole, non è possibile.
Ci si ritrova avviluppati al centro di un vortice dove le cose non sono più distinguibili, e dove la propria posizione non è per nulla chiara.
Ma anche questo è un risultato.

 

* Avete presente Joseph Kosuth?
** Liam Gillick, Three perspectives and a short scenario, Kunsthalle Zurich
Simon Starling - Three Birds, Seven Stories, Interpolations and Bifurcations, Galleria Franco Noero, Torino, Christopher Williams, For Example: Dix-Huit Leçons Sur La Societé Industrielle (Revision 5), Mambo, Bologna, 26 gennaio – 4 marzo 2007
*** Douglas Coupland, Polaroids from the Dead (1996)
**** Gilles Deleuze, Logica del senso, Milano, Feltinelli
***** Jean Francois Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981
****** Lucy R. Lippard, Six Years: The Dematerialization of the Art Object (1973)