
SUITE
Tra le cose
di Riccardo Conti
La piccola personale di Giovanni De Francesco pensata appositamente per lo spazio Mars ripropone tutte quelle tensioni estetiche e formali che ormai da anni contraddistinguono la sua ricerca artistica, questa volta idealmente iscritta nel triangolo memoria-suonomateria.
Al centro di questo intervento c’è uno oggetto preciso legato ad una pratica e allo svolgersi di questa: il mattarello, strumento tipico della cucina italiana, è per l’artista una forma ingombrante depositata nella memoria e nell’inconscio che implica la cucina come palcoscenico di un teatrino domestico dove la coazione del fare scandisce il rituale del cibo.
Così il duplicarsi dei tortellini è come l’accumulo di paure e di fantasie legate al materno, alla reiterazione masturbatoria dei gesti dei quali rimane qui soltanto il fantasma, evocato dal suono ripetitivo dello strumento da cucina che distende la pasta.
Questa madeleine proustiana rimanda al suono e la musicalità dell’esecuzione artigianale, come sfondo sottaciuto ma ribadito anche nel titolo delle opere e della mostra Suite, appunto. L’eterno ritorno allo spazio familiare della cucina comporta del resto all’alienazione domestica che trova largo spazio nelle attitudini creative, alimentata da fantasie, ossessioni e proiezioni di ogni tipo.
L’immaginario domestico presupposto come innocuo, deflagra in tutta la sua carica inespressa invadendo l’apparente tranquillità con il disagio psichico ed esistenziale ma insieme, creando nuovi simboli e nuovi linguaggi che reinventano uno spazio apparentemente chiuso e risolto in se stesso.
L’opera Movimento#1 è appunto un mattarello comune, alterato però nelle sue dimensioni e nel colore, mostrandosi così con la sua forma esile ma imponente con l’aspetto di un totem minaccioso che a tratti ricorda l’astrazione di certa scultura primitiva africana.
Accanto a questo oggetto, entrano in relazione e risonanza formale un gruppo di piccole sculture poggiate su di una robusta base che le ospita: sette calchi in gesso e resina dai colori tenui che ad un primo sguardo superficiale non svelano immediatamente la loro natura ma piuttosto ondeggiano nell’immaginario accostando e ammettendo possibilità di rimandi formali e culturali assai diversi.
Da un lato il loro disporsi ordinato ma non industriale le avvicina ai “ritratti” di bottiglie morandiane e alle loro tonalità chiare, oppure le forme levigate e votive dei lingam induisti. Ed ancora: oggetti fallici tipici di pratiche sessuali legate alla cultura queer, che però nella loro elementarità plastica rimandano, curiosamente, a giocattoli concepiti per il mondo dell’infanzia.
In un caso come per l’atro queste forme giacciono come prototipi o scarti del sistema produttivo della memoria: archetipi lievemente difettosi ed oggetti esteticamente fallati, resi inadatti ad un utilizzo specifico dalla spirale circolare dei valori simbolici che essi emanano.
Come in altri lavori Giovanni De Francesco bilancia abilmente le qualità seduttive dei suoi materiali con formalistica oggettività. In queste forme trovano spazio riferimenti al minimalismo del design e agli interstizi sociali che esso implica, incorporando la memoria e l’esperienza personale con un più diffuso atteggiamento e attitudine verso le forme degli oggetti e il loro rimando alla vita quotidiana, includendo la banalità e la complessità delle relazioni e dei ruoli che gli individui assumono nei loro comportamenti.
Il suono, che rimanda al movimento reiterato che accompagna le lunghe sessions della pratica culinaria, contrasta nettamente con la sostanziale staticità dei monolitici attrezzi, suggerendo qualcosa che si colloca tra la proiezione fantasmatica e la realtà corporea.
L’universo quotidiano simbolizzato da questi “corpi” emerge nella produzione di tali manufatti che, nascendo dalla necessità pratiche delle culture antropiche, sembrano tuttavia prendere silenziosamente ma inesorabilmente il sopravvento.
Un po come nel Qui Sait? di Guy de Maupassant, anche questi “oggetti” di De Francesco sembrano possedere una loro vita propria, persistendo nella memoria, evocando altre forme, chiedendoci di essere utilizzati, accostati tra loro, ordinati nello spazio. Ecco come si manifesta l’intimo e inaudito linguaggio delle cose di cui ci circondiamo, e dei mondi invisibili che queste mediano.
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On MARS mercoledì 16 febbraio 2011 dalle ore 18.00 alle 21.00
Foto di Maria da Schio